Amo guardare gli altri, quelli che non hanno alcuna relazione con me se non per il fatto che loro e io entriamo nel reciproco spazio visivo: la signora dl palazzo di fronte che cura i suoi gerani sul balcone due metri per due; le coppie abbracciate; le ragazze – capello appena fatto – che in macchina battono il tempo sul volante con la mano sinistra mentre ascoltano la radio e aspettano che scatti il verde; il giovane tedesco che fotografa la sua ragazza davanti la fontana del pantheon, con me che in quel momento me ne sto seduto sui gradini della fontana proprio alle spalle della ragazza. E allora mi piace immaginare che magari, quando loro due riguarderanno quella foto sul pc, lui le dirà sei venuta benissimo in questa foto, peccato che questo tizio rovina un po’ la visuale e ovviamente glielo dirà in tedesco mica in italiano, e poi magari dirà con photoshop mi sa che lo cancello o al massimo ritaglio i margini così questo tizio scompare e allora mi immagino lui, il giovane tedesco innamorato della sua ragazza, che – tagliaeincolla, strumento timbro e taglierina – mi raschia via, mi eutanatizza, mi dilegua da quell’orizzonte cui ho appartenuto il tempo di una foto.
Io sono sicuro che uno degli sport preferiti sulla metro (dopo leggere i quotidiani free-press) è cercare di immaginare la vita degli altri, guardandola mentre sta lì, ederata a un mancorrente o adiposata su un sedile. Io no, non amo stare lì a farmi una soap mentale (bella questa, mi sa che me l’ha appunto da qualche parte, così me la riciclo) su un tipo, solo sulla base di come è vestito o di dove posa lo sguardo (sul finestrino appannato? Sugli orecchini della ragazza di fronte? Sul taglio postpostdark dell’ultimo postpostdark che ancora ci crede? Su un tipo in giacca e cravatta tutto distinto che non si è accorto che ha la chiusura lampo scesa?), no: niente soap mentali (te l’avevo detto che me la riciclavo). Voglio soltanto raccontarti quello che mi capita di vedere. Microstorie che mi passano accanto. Relazioni inconsistenti, che mi fanno percepire il mio universo come meno assoluto.
Perché il mondo non è abitato dalle persone, ma dalle relazioni tra le persone.
Io sono sicuro che uno degli sport preferiti sulla metro (dopo leggere i quotidiani free-press) è cercare di immaginare la vita degli altri, guardandola mentre sta lì, ederata a un mancorrente o adiposata su un sedile. Io no, non amo stare lì a farmi una soap mentale (bella questa, mi sa che me l’ha appunto da qualche parte, così me la riciclo) su un tipo, solo sulla base di come è vestito o di dove posa lo sguardo (sul finestrino appannato? Sugli orecchini della ragazza di fronte? Sul taglio postpostdark dell’ultimo postpostdark che ancora ci crede? Su un tipo in giacca e cravatta tutto distinto che non si è accorto che ha la chiusura lampo scesa?), no: niente soap mentali (te l’avevo detto che me la riciclavo). Voglio soltanto raccontarti quello che mi capita di vedere. Microstorie che mi passano accanto. Relazioni inconsistenti, che mi fanno percepire il mio universo come meno assoluto.
Perché il mondo non è abitato dalle persone, ma dalle relazioni tra le persone.